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Category: GLI SPIRITI DELLA SOCIETA'
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NATURA O CULTURA

Solo la riflessione sulla storia potrà permetterci di capire perché questo nuovo "grande balzo in avanti" non è finora avvenuto e sembra di là da venire. Il pensiero di Marx si avvia laddove finisce quello di Darwin: perché l’umanità non riesce a fuoriuscire dalla sua preistoria?”

 

Capire ciò che è innato nell'uomo e ciò che è acquisito dalla cultura e dal linguaggio è sempre stato molto importante per la filosofia, per la comprensione escatologica dell'uomo.

E' intorno a ciò che è Naturale o innaturale che si sono imbastite di volta in volta, l'etica, la morale, la giurisdizione, il concetto di libertà, le richieste dei diritti, i precetti religiosi, le filosofie, le scienze.

Si ritorna sul tema perché senza una riallocazione concettuale del rapporto Natura-cultura non si dà una vera emancipazione sociale.

La storia della Natura in occidente

Il pensiero occidentale ha elaborato, nel corso del tempo, definizioni diverse della Natura con prospettive non sempre tra loro conciliabili.

I greci e la Natura

Si sono intrecciate, fin dall’inizio, due tradizioni. La prima cosmocentrica, inaugurata dai presocratici, riconduce la natura umana a quella cosmica - l’uomo, in quanto microcosmo è soggetto alle leggi proprie del macrocosmo.

La tradizione cosmocentrica è stata in particolare sviluppata sul terreno etico dallo stoicismo, secondo il quale il perseguimento della felicità (eudemonia) costituisce l’obiettivo della vita morale, questa è connesso all’attuazione di una vita virtuosa, che consiste nell’adeguamento delle azioni umane alla legge del cosmos, del cui ordine anche l’uomo partecipa insieme agli altri esseri.

Il pensiero stoico, dopo una prima fase in cui ha elaborato una concezione della Natura riferita totalmente all’ordine cosmico, successivamente si è ricollocato su una dimensione più antropologica del "vivere secondo natura" in questo caso, lungi dall’essere equiparato alla mera adesione a una cieca istintualità, è inteso piuttosto come un “vivere secondo ragione”, essendo presente nella natura il logos divino quale principio animatore e ordinatore.

La differenza qualitativa tra Natura cosmica e natura umana è qui assente: rimane la convergenza del logos di “natura” e di “ragione”, costituiscono tra loro una continuità.

Il secondo filone molto antropocentrico, è iniziata da Socrate, che con il suo “conosci te stesso”, e pone al centro l’Uomo. Con lui la natura umana è una realtà nettamente distinta dall’ordine del cosmo, ha leggi proprie sue proprie che hanno la loro origine nella “ragione”, attraverso la quale l’uomo ha la possibilità di conoscere se stesso e la Natura circostante e di operare su di essa.

La prospettiva antropocentrica viene delineata più marcatamente da Aristotele, che fa coincidere la Natura umana con l’essere razionale dell’uomo. La natura umana è l’attività della ragione, la quale ordina le inclinazioni e gli istinti verso gli obiettivi più nobili e alti. Il vivere secondo natura non significa dunque l'adeguamento alle inclinazioni di livello inferiore, ma attraverso l'uso della ragione, arrivare al vero fine dell’agire umano, che per Aristotele è l’eudaimonía1. Essa, diffusa universalmente nella natura umana, assicura la persistenza di alcuni valori comuni a tutti gli uomini e consente per questo una risposta al contempo omogenea e diversificata alla prassi umana.

La visione cristiana della Natura

Inizialmente sotto l’influsso dello stoicismo, i cristiani sono legati a una visione cosmica della realtà che non consente loro di distinguere nettamente "secondo ragione" e “secondo natura”.

Tuttavia, natura umana e legge naturale , sono, nel primo cristianesimo, inseriti nel contesto storico-salvifico con riferimento alle categorie di creazione, di escatologia legata al giudizio universale.

La legge Naturale e la legge del Libro, quella evangelica, coincidono e sono i riferimenti che informano tutto l'agire umano-cristiano.

Con Tommaso d'Aquino, abbiamo l'abbandono da parte del cristianesimo dell’impostazione legata allo stoicismo e l'accettazione di una visione più aristotelica. La concezione antropocentrica definisce la natura umana natura come ragione (natura ut ratio), quindi per Tommaso, la ragione consente all’uomo non solo di conoscere ma anche di modificare le dinamiche biofisiche del proprio essere come quelle della Natura circostante. La legge naturale umana per lui assume un significato nuovo: essa è qualitativamente diversa dalla legge della Natura infra umana, caratterizzata dal determinismo fisico e biologico; per Tommaso si può, nel caso dell’uomo, parlare di legge naturale solo per analogia.

La sintesi sociale, il cemento sociale è il Dio cristiano che regge il mondo attraverso la provvidenza. Sotto la sua legge eterna (lex aeterna) e attraverso la ragione (ratio), l'uomo definisce il modo proprio di partecipare alla legge divina, divenendo un soggetto libero e responsabile.

La legge naturale umana riveste, a tutti gli effetti, il carattere di legge universale, potendo venire definita in senso pieno come ordinamento di ragione (ordinatio rationis), i cui contenuti sono, in parte, percepiti come principi primi della stessa ragione, che le donano il carattere di universalità.

E' il frutto della mediazione di principi con una serie di fattori storici (e in questo caso non sono universalizzabili). Si dà corpo così un concetto di natura umana (e di legge naturale umana) dinamico, fondato su un’infrastruttura ontologica aperta (legata all’essere corporeo e spirituale e alla dimensione sociale dell’uomo), che non comporta soltanto la conservazione della realtà, ma anche la possibilità (anzi la necessità) di un costante intervento su di essa. La Natura è perciò datità e possibilità: ha cioè i connotati di realtà intangibile e insieme soggetta a un processo di continua trasformazione.

Il punto di vista della tradizione ebraico-cristiana è un enorme feticismo religioso

Il rapporto biblico dell'uomo con la Natura è soggiogare2 la terra come modo di partecipare dell’uomo al potere creativo divino. All'uomo è affidato il prendere possesso della Natura e il guidarne lo sviluppo verso la pienezza. La costruzione del giardino dell’Eden è assegnata al lavoro dell’uomo. Ma l’esercizio di signoria dell'uomo sulla Natura ha suo limite in Dio, come ci ricorda (con grande efficacia simbolica) il precetto di "non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male" !(Genesi 2, 17).

Il momento sociale, il legame umano e identitario non avviene tra uomo e uomo in rapporto con la Natura, ma ciascuno diventa sociale solo realizzando soggetto dopo soggetto la comunione con Dio, per contro proprio, altrettanto individualmente ciascuno si rivolge verso la Natura.

La categoria di “creazione divina” della Natura non è sacralizzata come avviene nei riti animisti, i quali hanno dei tabù sulla possibilità di fare interventi su di essa, al contrario la religione giudaico-cristiana non ha remore di questo tipo.

Natura e cultura sono cornici dell'abitare il mondo, ma sono poste sempre e comunque sotto l’ordine della storia “salvifica” della fede. Soprattutto, i cattolici sono contrari anche alla riduzione di tutto a cultura, o alla Natura (come scienze) per non aprire le porte al relativismo.

Segnaliamo a proposito di cristianesimo e storicismo, di come Cristo, facendosi carne, è entrato nella Natura (carne), ma in una Natura particolare, inconcepibile prima dell'avvento della scrittura3. Si è fatto verbo, ovvero storia, collocandosi in uno spazio tempo definito, circoscritto. Rompendo con la tradizione del Dio mitico, fuori dello spazio e del tempo, senza relazioni causali. Per gli ebrei, Dio è addirittura senza nome, perché dare un nome vuol dire dare finitezza e destino a Dio, storicizzarlo, inserirlo nelle catene causali.

I monoteisti di ceppo ebraico (cristiani e musulmani) non fanno mai conti del rapporto tra l'immutabile e la storicità (di Gesù e Maometto), e usando il Libro (la scrittura che ha un inizio ed una fine) come fonte rivelata, in qualche modo di sono rovinati con le proprie mani devono continuamente inseguire, interpretare il libro per adattarlo alla politica del potere quotidiano (storico).

Forse era per questo che Gesù pur sapendo scrivere non ha mai scritto niente per i posteri?

La modernità

Si rompe con la visione statica naturalistica di cui sopra, e ha inizio la centralità assegnata al soggetto in quanto individuo, considerato cioè nella sua unicità, al di fuori di qualsiasi orizzonte cosmo-ontologico sovrastante e si sacralizza la soggettività.

A dare inizio a questo processo è stato il Nominalismo, secondo il quale le entità astratte (generali o universali) non esistono di per sé, ma si risolvono nei nomi che designano classi di individui, gli unici considerati esistenti. Gli universali sono solo voces onomina, cioè segni verbali, riducendo i concetti a nomi (cioè a etichette esterne che non definiscono ciò che le cose sono). Introducevano in questo modo una visione individualistica della realtà, concepita come l’insieme di tanti piccoli mondi tra loro non comunicanti. Il che implica la negazione di qualsiasi riferimento ontologico nel parlare di Natura. L’idea di Natura, formalmente persistente, è perciò riconRiflessivodotta al solo aspetto biologico: “la Natura è come Dio la vuole”.


E' l’affermarsi di un modo di pensare antropocentrico e pragmatico che riduce la Natura a semplice campo dell’intervento libero e creativo dell’uomo. La dottrina del diritto naturale elaborata in questo contesto - quella giusnaturalistica - è caratterizzata dal prevalere dei connotati giuridici antropocentrici.

In Marx la Natura era vista prevalentemente in senso illuminista, le nozioni di antropologia del tempo erano alquanto scarse e risentivano molto dei paradigmi religiosi. Si parlava di “leggi di Natura” in senso darwiniano stretto. Anche per l'uomo si guardava al lato biologico e alle su necessità biologiche come momento primario dell'attività umana, da cui discendeva tutto il resto.

L’uomo per vivere deve rispettare talune leggi biologiche: sia in un raffinato ristorante o in una bettola, l’uomo assume proteine e lipidi come una gallina o una ameba. Il corteggiamento di una donna per quanto pieno di passione, secondo una visione ortodossa marxista, è sempre finalizzato alla riproduzione.

L'uomo sarebbe dunque, secondo questa concezione, tutto finalizzato alla riproduzione e rigenerazione della specie, proprio come ogni altro mammifero.

Per sopravvivere, una società (o una specie animale), deve trovarsi almeno nelle condizioni che Marx chiama di riproduzione semplice. Che queste condizioni si trovino gà date, come succede a piante e animali, o che le si crei, come fa l’uomo, poco importa. La riproduzione ha bisogno di alcune di esse biologiche inevitabili, come la disponibilità di cibo, e di altre come quelle climatiche.

La riproduzione semplice richiede che non mutino le condizioni in cui si svolge il processo ovvero che si dia una riproduzione ciclica, senza storia. Lo stato di riproduzione semplice per la specie umana richiede che la produzione avvenga con le medesime tecniche, con identiche quantità e qualità di lavoro ecc.

In questa fase di riproduzione semplice vi è, secondo Marx, l'assenza di ogni sviluppo.

Se si darà uno sviluppo, sarà solo quando la riproduzione ha superato lo stadio dell’equilibrio e produce o si appropria di più risorse di quante ne consumi.

Per Marx queste erano le leggi di Natura che non possono essere abolite. Possono mutare forma nella loro applicazione durante i secoli ed essere specifiche per ogni epoca. Ma questa riproduzione generale è considerata legge di Natura basilare, da cui tutto deriva.

Ma cos'era dunque la Natura poi per questo Marx? Era uno dei tanti a-priori illuministi-kantiani, al pari dello spazio e del tempo, dato a sé a prescindere!

La storia era intesa come progressiva, necessaria perché naturale, unidirezionale, e per questo non ideologica ma scientifica. E' il teorema dello sviluppo delle forze produttive a cui tendevano, come percorso obbligato, tutte le società. Quindi in questa logica il capitalismo era una tappa forzata, l'ultima, del percorso dell'umanità verso la luce; un pit stop della lunga storia della società verso il comunismo.

La storia dell'occidente era vista non come una delle tante possibili, ma come la sola possibile, una avanguardia per le altre culture (asiatiche, africane ecc)!

Marx traduce in forma consapevole il passaggio del dominio dell'uomo sulla Natura con i suoi strumenti del lavoro e della tecnica come mezzi umanizzazione della Natura per sollevare l'uomo dalla fatica e liberarlo dal lavoro come schiavitù e dipendenza.

Questà necessità teorizzata da Marx era comprensibile quando l'uomo per sopravvivere dipendeva in tutto e per tutto dai 'capricci' della natura (Pioggia, sole, carestie ed epidemie) . Ma oggi bisognerebbe rivedere diversi di questi sillogismi.

La Natura nell'era capitalista

In ogni pollaio, galli e galline sono strettamente stratificati: si va dal gallo e gallina alfa giù giù fino al gallo o gallina omega. Alle galline alfa vanno i bocconi migliori, a quelle omega quelli peggiori. Diciamo che nelle galline ci sono gerarchie naturali perché accettano questa gerarchia senza ribellarsi.

L'umano, nella misura in cui introduce gerarchie (con poche ribellioni), in qualche modo naturalizza gli esseri umani.

La differenza tra polli da una parte e uomini dall’altra è che i primi non hanno bisogno di andare a scuola o in chiesa per stabilire tra loro gerarchie, mentre gli esseri umani si; ma i risultati finali, sono alquanto simili tra le due specie.

Nel capitalismo, nel rapporto con la Natura, abbiamo abbiamo un risvolto filosofico e uno pragmatico.

Con l'illuminismo liberale, da un lato si divarica le res extensa e res cogitans e dall'altro li riduce a dimensione quantitative, per il loro controllo e monetizzazione: il concetto di Natura è legato al fisicismo, è quantizzabile e quindi monetizzabile!

In altre parole, la Natura appare in aperta contrapposizione con l'altra istanza più significativa della modernità: il soggetto ipertrofico, ossia la rappresentazione di sè, dopata e predatrice della Natura.

Dall'odierno capitalismo origina una visione antropologica che condiziona sia la percezione che il soggetto ha di sé e dei suoi rapporti con con la Natura.

La libera soggettività del capitalismo, estende la sua interferenza su tutti gli ambiti dell’esistenza e assume le sembianze di un potere che determina della razionalità del profitto con la misura di tutte le cose. Il capitalismo riduce i significati della realtà ai criteri di operabilità, di utile e profittevole, escludendo la sostenibilità, la compatibilità ambientale è un problema ontologico di umanità.

Il concetto di Natura, va di pari passo il processo manipolativo di vaste proporzioni operante sulla Natura, vista sempre come un cantiere dell'attività capitalista.

Questo pone altresì il problema di stabilire un limite all’intervento del capitalismo su di essa, in gioco non vi è infatti soltanto il destino del singolo, ma anche quello della specie.

Il rapporto con la Natura nel capitalismo ha anche un risvolto escatologico, cioè riguardante i suoi fini ultimi . Nell'economia classica essa è un bene, con un valore d'uso e quindi è una merce con un valore di mercato e un proprietario!

Come conseguenza abbiamo la progressiva personalizzazione della Natura, cioè la sua umanizzazione capitalista, la sua trasformazione in merce: l'antropizzazione della Natura fino ai suoi estremi, e dopo la sua distruzione la si riproduce come spettacolo.

Prima erano i circhi, poi gli zoo, e infine i viaggi organizzati in Kenia con safari, con leoni e giraffe che fanno da figuranti in una finta giungla, soggiornando in un finto villaggio tribale, con finte danze rituali di finti indigeni.

E' la Natura ridotta alla sua razionalità capitalista. Il profitto svolge il compito di ordinamento e di senso, tale che il concetto sociale della Natura ha mutato anche antropologicamente l'umanità.

E' Natura ciò che altri hanno programmato che sia, facendola diventare merce, umanizzandola, rendendola controllata e innocua e imprimendole un progetto di generatore di profitto. Essa è talmente surrogata che non riusciamo a distinguerla più da quella originale.gradualismo

Il NON uso della Natura

A parte la riduzione a merce della Natura, vanno fatte riflessioni ulteriori: non è certo escludendo il segno merce dalla Natura e ritornando al vecchio valore d'uso che risolviamo la cosa.

Spesso, il non uso della Natura o parte di essa, conseguito e realizzato come scelta sociale-cognitiva, sembra l'unica soluzione.

Forse bisogna fare un salto quantico, il mondo non è bello e interessante e ricco solo perché ci rimanda a dei valori d'uso, ma anche e soprattutto perché ha dei beni di non uso4, il paesaggio, l'arte, un bosco, un sito archeologico. Un loro uso eccessivo spesso porta alla loro distruzione.

Questo sono beni comuni, e da essi non si può solo prendere, bisogna anche dare; la necessità della loro difesa e salvaguardia dipende molto dal livello culturale della società.

Sarebbe da approfondire il discorso del non uso della Natura, ma qui si vuole solo aprire il discorso.

Dibattito della modernità sulla Natura/cultura a sinistra.5

Questo dibattito è necessario per capire se per esempio le abitudini alimentari, le organizzazioni familiari, la schiavitù dell'uomo, o della donna, le sue forme culturali, i sistemi familiari e di distribuzione del potere o il suo accentramento siano più o meno naturali, o dettati dall'ambiente, o prodotti sociali. Ossia quanto nei comportamenti sociali è biologico, dettato dall'ambiente e quanto acquisito dalla cultura.

Scopriremo qui che neppure il biologico è naturale come si pensa, ma storico, sempre frutto di scelte: bisogna uscire da queste contrapposizioni metafisiche che coprono presupposti ideologici interclassisti. Ma procediamo con ordine.

Aristotele in 'La Politica' parla della schiavitù e del dominio del marito sulla moglie:evoluzione

..”in effetti, alcuni popoli – come gli Sciti o i Traci - o individui erano predestinati alla schiavitù per Natura (katà physin). E per Natura la femmina è sottoposta al maschio così come l’animale è sottoposto all’uomo, come il corpo è sottoposto all’anima, e come l’appetito è sottoposto all’intelletto.”

Da questo progenitore ad oggi, per giustificare un qualunque conflitto razziale, fare leva sul naturale è d'obbligo (donne, ebrei, negri, zingari, tedeschi, meridionali, musulmani ecc. ecc. sono di volta in volta naturalmente qualcosa di minores, o disdicevole e repellente da sottomettere, espellere o eliminare).

Dagli anni 70, il dibattito a sinistra è focalizzato tra due approcci alternativi: uno è l'universalismo naturalista e l’altro il relativismo culturalista. Le due concezioni hanno trovato anche i loro padri di riferimento: Noam Chomsky e Michel Foucault. I loro punti di vista sono alla base di tanti altri.

Chomsky, ispiratore delle teorie cognitiviste, sostiene che il linguaggio umano è unico e innato.

Le differenze tra culture sarebbero allora spiegabili in termini funzionalisti:chi siamo

perché la stessa Natura umana si confronta con ambienti diversi e quindi ha da risolvere problemi diversi. Perciò una cultura equatoriale sarà necessariamente diversa da una cultura del circolo polare artico, ad esempio. Si tratta qui di una pedissequa applicazione dell’adattativismo biologico.”

Per esempio, il funzionalista tenderà a vedere le arzigogolate e minuziose regole alimentari che costituiscono la tradizione kasher ebraica come la strategia di un popolo per darsi una dieta consona al clima caldo della Palestina. Questa teoria 'adattativa' comincia a vacillare quando queste regole alimentari sono seguite in modo pignolo da ebrei ashkenazy negli inverni di Varsavia o di New York! Quindi il funzionalismo adattativista sembra troppo povero sia per spiegare la varietà della vita biologica, sia per spiegare la varietà della vita culturale!

Foucault al contrario è stato eletto campione del relativismo culturalista: per lui la natura umana esiste solo come concezione storicamente datata, quel che contano insomma sono le differenze tra esseri umani, culture, “dispositivi di potere”, come egli li chiama.

La pretesa di voler ricostruire degli universali umani – sulla base dei quali fondare l’azione politica, la scelta etica, la verità scientifica, ecc. – è un’illusione: questi universali sono di fatto espressione di una particolare configurazione storica. Questa tende a naturalizzare e universalizzare lo stato dell’arte filosofico, per così dire, di ogni epoca.”

Il relativismo culturale è divenuto il cavallo di battaglia del femminismo, per demolire le concezioni secondo cui la donna è sottomessa all'uomo in quanto inferiore per natura. Ora, attraverso questa critica delle naturalizzazioni, il pensiero post-moderno è sfociato in una concezione storicista radicale secondo cui ogni richiamo alla natura dell’essere umano è mistificatorio: credere che certi tratti degli umani (a parte certi ovvi tratti fisiologici) siano naturali è sempre un’illusione che esprime un determinato assetto culturale. Al contrario, tutto è Storia, secondo questa concezione.

La gran parte del pensiero post-moderno prolunga la vecchia sfida romantica ed idealista secondo cui tutto, in fin dei conti, è costruzione culturale, insomma creazione spirituale.

Questa critica delle naturalizzazioni da parte del femminismo, ha costituito un innegabile progresso civile e sociale.

Purtroppo però il dibattito non porta a una seria critica della dicotomia, anzi, tende a riaffermarLa attraverso presupposti rousseauiani-illuministi o spiritualistici.

Se diciamo che la schiavitù o la sottomissione delle donne sono assetti storico-culturali e non conseguenze di nature inferiori, allora si pensa ad una sottostante vera Natura da ripristinare?

La lotta sociale consisterebbe allora nel dare forma a una società finalmente secondo Natura in senso ancora una volta aristotelico? Poichè le differenze di genere si baserebbero su teorie false, allora uomini e donne devono essere socialmente eguali perché sono eguali per Natura? La non provata credenza di fondo è quella ben nota secondo cui tutti nasciamo eguali, e poi la società ci fa disuguali. Da qui il sogno di una società che sia veramente naturale, che esprima la vera natura umana (presunta egualitaria).

I naturalisti liberal-rousseauiani denunciano le società storiche – a cominciare dalla nostra – come contro Natura; ma così presumono ipso facto che esistano culture davvero naturali (di solito quelle dei selvaggi, ormai ridotte al lumicino). Proprio perché una cultura non esprimerebbe la vera Natura, sarebbe radicalmente cultura – ovvero cattiva. La dicotomia qui si riafferma come confronto tra il Male (la cultura contro Natura) e il Bene (la Natura vera).

Un altro filone critico che non si richiama allo Spirito Oggettivo di Hegel, e alla fenomologia di Foucault, o ad ogni appello alla supposta Natura umana: è il femminismo esistenzialista. Si riassume nella celebre frase di Simone de Beauvoir: “non si nasce donna, lo si diventa”. Non esiste una Natura femminile: si diventa donna per una serie di scelte sia degli individui che delle culture, mentre, la critica naturalista dice:

la schiavitù nega l’eguaglianza naturale”, “la sottomissione della donna all’uomo è contro Natura”. La critica esistenzialista dice: “è schiavo chi accetta la schiavizzazione che l’altro gli ha imposto”, “è donna chi si sceglie tale in risposta a quel che gli uomini dicono e fanno di lei”.

L’esistenzialismo, solo in apparenza cancella il riferimento alla Natura: di fatto, una Natura viene rievocata dal presupposto della libertà umana.
Siccome ogni soggetto od ogni cultura o ambedue nascono o sono liberi, questa libertà è quindi la Natura da ristabilire – anche se si tratta di una Natura trascendentale, metafisica, ovvero di una meta-Natura non naturale.

Questa 'libertà' è in sostanza libertà dalla Natura, quest’ultima intesa come determinismo, e quindi anch'essa funziona e si pone come una seconda Natura, più pratica magari, ma che fa comunque da modello a ogni assetto culturale. Così anche la critica esistenzialista condanna la cultura di oggi in nome di una 'Natura umana' violata e tradita, benché questa Natura non è certo il DNA ma lo 'spirito umano' – inteso come nella tradizione cartesiana: la potenza dell'io ipertrofico, come coscienza, 'per sé', di autoriflessione e libertà (a prescindere il linguaggio, la storia e società in cui si è immersi)! Con l'esistenzialismo siamo prossimi alla razionalità assoluta egheliana.

Lo Spirito Oggettivo che per Hegel, è lo spirito che si realizza in un mondo distinto da quello della Natura: il mondo delle leggi, della politica, delle istituzioni e dei costumi. Lo spirito oggettivo rappresenta il momento della dimensione relazionale e intersoggettiva, non è più astratto, separato dalla comunità, ma è quello oggettivato nelle istituzioni sociali, politiche, nelle relazioni giuridiche e morali presenti tra i membri della comunità. 6

Contro questa credenza nell’autonomia dello 'Spirito Oggettivo', gli universalisti naturalisti riaffermano gli universali umani, vale a dire, certe capacità mentali innate e determinate di tutti i membri della specie homo sapiens.

Dove schierarsi? Possiamo sfuggire a questo dilemma: forse la risposta migliore è cambiare la domanda. Liberandoci, finalmente, della Dicotomia.

Il differenzialismo naturalista7

Facendo dei salti oltre la dicotomia sopra menzionata, va emergendo, finalmente, una nuova concezione che viene definita relativista naturalista. O meglio, dato che il termine relativismo gode di pessima fama perché viene interpretato come cinismo morale, si potrebbe definire piuttosto un differenzialismo naturalista. Quest’ultimo filone è sorto soprattutto all’interno delle scienze cognitive e biologiche - non può essere insomma tacciato di essere una teoria romantica. In breve: non bisogna pensare che sia naturalista solo chi invochi la natura umana – intesa come invarianza – mentre chi insiste sulle differenze sarebbe senza scampo un culturalista. Fiorisce un approccio naturalista che non assume la natura umana” come eidos (essenza, forma-aspetto, specie, identità).

Si propone un approccio intellettualmente sovversivo.340px Ouroboros

In effetti, il genetismo dominante – figlio della cosiddetta sintesi neo darwiniana - si basa su alcuni presupposti forti, e cioè:

1) La differenza netta tra organismo e ambiente: un organismo naturale è in gran parte determinato dal proprio DNA, in più piccola parte determinato dalla storia delle sue interazioni con l’ambiente.

2) Un organismo è totalmente il risultato di processi filogenetici adattativi: nel corso del tempo, l’ambiente ha selezionato, tra le mutazioni genetiche prodottesi casualmente, quelle con più fitness, ovvero quelle che permettevano la maggior riproduzione del genotipo dell’organismo stesso. Tutto nell’organismo esprime un adattamento ottimale.

3) I rapporti tra genotipo e fenotipo sono a senso unico: questo è il dogma centrale della biologia genetica, formulato da Francis Crick nel 1957. Nulla dell’influsso culturale modifica in qualche modo i geni (la Natura) di un organismo: in termini tecnici, il genotipo

determina il fenotipo ma, all’inverso, nulla di quel che accade al fenotipo passa al genotipo. L’ambiente seleziona i tratti di un organismo, non li causa mai (se si pensa il contrario, si cade nel lamarckismo).

4) Certi comportamenti sono più naturali di altri perché sono più adattativi: se si cambia l’ambiente standard di un organismo, questo può sviluppare comportamenti innaturali, cioè poco adattativi.

5) Tutti gli individui esprimono i tratti comuni della propria specie: le variazioni individuali e culturali sono secondarie, ogni individuo e cultura esprime alcuni universali della propria specie. La natura umana è quindi necessaria (determinata dal genoma umano) e uniforme.

Molti di questi presupposti fondamentali del naturalismo dominante sono stati, in tutto o in parte, scardinati dalla biologia differenzialista. Rivediamoli a partire dall’ultimo.

Punto 5: L’insistenza sui caratteri universali della specie umana rimuove la specificità rivoluzionaria della teoria darwiniana: Darwin, contro il preformismo di Linneo e Buffon, ha detto che le specie evolvono grazie alle differenze dei tassi di riproduzione di diversi tipi di individui all’interno di una popolazione – queste differenze riproduttive dipendono dalla pressione ambientale.

Per il darwinismo autentico contano insomma le varianti, i cui portatori sono detti mutanti: c’è storia della vita perché ci sono mutanti. La vita, dall’ameba all’homo sapiens, è globalmente un gigantesco insieme di variazioni. Parliamo di specie umana, al limite, perché una donna si riproduce solo se si accoppia con un uomo, non con un gorilla ad esempio (anche se il 98% del genoma di un gorilla è uguale a quello dell’homo sapiens). Per il darwinismo, due individui di sesso diverso che si accoppiano si riproducono non perché appartengono alla stessa specie, ma diciamo che appartengono alla stessa specie solo perché si riproducono.

In questa prospettiva, non possiamo più identificare – come vuole una vecchia tradizione – il naturale con l’universale: al contrario, dobbiamo pensare il naturale come una dinamica sempre tra variazioni e differenze. Una specie è una stabilità sempre provvisoria.

Il vero significato filosofico del darwinismo consiste in questa idea: che la Natura è non meno storica della cultura. Perché sia la cosiddetta Natura che la cosiddetta cultura producono continuamente variazioni, che avranno più o meno successo nel tempo.

Dovremmo rovesciare il cliché, e dire che molto spesso è la cultura a fornire omogeneità e invarianza a individui naturalmente molto variabili. E’ quel che accade ad esempio con il criterio culturale di razza: esso identifica come appartenenti a una stessa razza individui che, di fatto, sono portatori di ampie variazioni fisiche. Se andassimo a guardare, ad esempio, il DNA di tutti quelli che negli USA sono classificati come afro-americani, ci accorgeremmo che ci sono più variazioni tra neri che tra molti neri e molti bianchi. Ancor più questo vale per i cosiddetti ebrei: essi certamente non sono una religione (molti ebrei sono atei o convertiti ad altre religioni) e nemmeno un’unità genetica, dato che col tempo si sono mescolati ad altri gruppi, eppure la questione ebraica, domina tuttora l’agenda politica. La cultura di fatto unisce categorialmente quel che la Natura, senza posa, differenzia.

Bisogna rovesciare il cliché, e dire che molto spesso è la cultura a fornire gli universali, l'omogeneità e l'invarianza a individui (naturalmente molto variabili di per sè), soprattutto se umani,vedi ad esempio il perdurare del tabù dell'incesto presso tutte le comunità umane, come suggerisce Lévi Strauss8.

Punto 1: non è vero che la differenza tra organismo e ambiente è così netta come l’ortodossia naturalista-genetista ci fa credere. Il biologo Lewontin, ricorda che quel che si chiama ambiente di un organismo è, in gran parte, costituito da altri organismi: le interazioni organismo-ambiente sono in larga parte interazioni tra organismi. In queste interazioni ogni organismo si adatta agli altri, e ogni organismo in parte adatta gli altri a se stesso.

E’ questo che ha permesso a molti organismi – uomo incluso - di colonizzare ambienti spesso molto diversi da quelli originari: ogni organismo tenta, con minore o maggior successo, di plasmare vecchi e nuovi ambienti ai propri bisogni bisogni.

Insomma, non si riproduce di più solo l’individuo che si adatta meglio al proprio ambiente, ma anche quello che riesce a riformarlo a proprio vantaggio.

Ora queste osservazioni minano al fondo la distinzione categorica tra Natura e cultura: quel che chiamiamo ambiente naturale, in effetti, risulta essere, rispetto a ciascun organismo, anche una costruzione culturale. Quel che chiamiamo ambiente naturale, di fatto, è effetto dell’interazione culturale tra organismi. L’homo sapiens non ha fatto altro che allargare in modo smisurato quel che ogni organismo fa.

Punto 2: il dogma adattativista”, secondo cui tutto quel che costituisce un organismo ha un senso di adattamento al proprio ambiente, è confutabile. I tratti di un organismo possono essere anche esattativi, o puramente contingenti, come un bricoleur. Bricoleur è il non-specialista che riadatta pezzi presi da altre costruzioni per riparare o migliorare altre cose.

La vita fa la stessa cosa: funzioni e arti che originariamente si erano sviluppati favorendo certe capacità vengono riadattati dagli organismi per scopi diversi. Non possiamo quindi dire che la funzione crea l’organo; piuttosto, è l’organo a suggerire la funzione.

Il glande clitorideo è a tutti gli effetti un pene femminile nei mammiferi, un pene poco sviluppato: i maschi conservano alcuni tratti femminili (ad esempio i capezzoli), mentre le femmine portano traccia di tratti maschili che lo sviluppo embrionale ha accantonato. Ora, la presenza della clitoride non è adattativa perché i mammiferi femmine, umane escluse, di fatto non la usano: siccome le femmine sono montate a tergo, la loro clitoride non viene stimolata. L’homo sapiens, invece, ha inventato il coito faccia-a-faccia, ed ha così scoperto l’orgasmo femminile.

Insomma, l’homo sapiens ha sfruttato una possibilità che era inscritta nell’organismo femminile, ma che sarebbe rimasta latente se esso homo, attraverso una mutazione culturale, non l’avesse scoperta. Quindi si può concludere che nel nostro organismo (e quindi nel nostro cervello) ci sono molte più elementi di quante non siano state selezionate dall’ambiente per favorire la riproduzione.

La sintassi dell'organismo ha una sua autonomia, e non può essere ridotta alla sua semantica, cioè alla funzione adattativa. Un organismo è sempre molto più ricco dei significati funzionali che esso ha. Non tutto in un organismo è utile: gli organismi sono strutture integrate e costrette, che ‘spingono’ contro la forza della selezione per incanalare mutamenti lungo vie permesse. Un organismo manifesta anche dei vincoli di sviluppo: molte cose del nostro corpo esistono in quanto prodotte dal nostro sviluppo embrionale - è il caso della clitoride - non perché servano a qualche cosa. Si vede quanto questo contribuisca a scardinare ulteriormente la Dicotomia: in effetti, ha senso chiedersi se il piacere clitorideo è un prodotto culturale o no?

In generale: la differenza tra naturale e culturale va reinterpretata come una differenza relativa, non assoluta - qualcosa è naturale da un certo punto di vista e culturale da un altro punto di vista.

Punto 3: la Natura è storica, la Natura di fatto è fenotipica. In termini aristotelici: la Natura non è solo nell’essere-in-potenza del genotipo, è anche nell’essere-in-atto del fenotipo. Ovvero, i geni certo sono portatori di differenze, ma queste non si esprimono mai in tratti precisi: tra il dire (l’istruzione genetica) e il fare (l’organismo così come lo conosciamo) c’è di mezzo il mare. Ossia quello che Oyama chiama sistemi di sviluppo. Un sistema di sviluppo non è l’organismo distinto dall’ambiente: è un’interazione continua tra influenze genetiche, embrionali, ambientali e culturali. Non c’è mai un rapporto univoco tra un gene e un tratto, ad esempio gli occhi azzurri in un individuo; un gene, presente sia nei suoi genitori che in lui, può spingere a manifestare occhi azzurri, ma perché questo accada occorrono situazioni embrionali e ambientali stabili: quello che attribuiamo spesso al determinismo genetico è di solito dovuto al fatto che ogni individuo si trova a rivivere situazioni ambientali simili a quelle dei genitori.

Un esempio di ciò è quanto si manifesta nei casi dell'imprinting. Un’oca, dopo che è nata, segue sempre la madre. Da qui si arguisce: un gene dice a ogni oca chi è sua madre e che deve seguirla. Ma Konrad Lorenz verificò che di fatto le oche seguono sempre la prima cosa che, alla nascita, vedono muoversi: se è lo sperimentatore, ad esempio, seguiranno sempre lui.

Quindi, il gene delle oche le spinge a seguire la prima cosa che vedono muoversi, il seguito (identificazione della madre) è 'storia', ossia acquisito.

Punto 4: tutto è uno zoo. Si è soliti pensare che un organismo sia una macchina adattativa, si dà per implicito che esso è adattato a un ambiente: se per un caso

l’ambiente viene cambiato, la Natura di questo organismo, per dir così, si ribella. Ossia si è comunemente soliti pensare che il DNA si sia selezionato per rispondere solo ad un certo ambiente particolare e non ad altri.

E’ noto che alcuni animali selvatici, una volta rinchiusi in uno zoo, manifestano comportamenti aberranti che non esibiscono mai nello stato libero.Allora siamo portati a dire che tenere gli animali nello zoo suscita comportamenti contro natura!

Ma di fatto quei comportamenti manifestati nello zoo non sono né più né meno naturali di quelli manifestati allo stato libero: possiamo solo dire che il cambiamento d’ambiente prodotto dall’uomo attiva atteggiamenti e comportamenti che nello stato libero non emergevano, che restavano latenti.

Quei comportamenti innaturali sono possibilità che l’ambiente abituale di quegli animali non aveva attualizzato. I geni di un animale gli rendono potenzialmente possibile una serie, quasi illimitata di comportamenti, spesso in gran parte non vengono messi in atto. Se, come sottolinea Oyama, un gene in quanto tale non determina alcun tratto da solo, allora ogni tratto 'caratteristico' è effetto di un sistema di sviluppo”.

Quindi Natura, Ambiente e Storia coincidono

Infatti, se l’ambiente per ciascun organismo è in gran parte costituito da altri organismi, allora la situazione di un animale chiuso in uno zoo non poi così diversa dalla condizione che chiamiamo 'naturale': in uno zoo l’animale reagisce a un ambiente programmato dall’uomo, ma comunque reagisce, perchè in un certo senso, ogni animale vive sempre in uno zoo, anche se non architettato dall’uomo: interagisce con altri organismi che lo condizionano e condiziona a sua volta.9

La differenza categoriale tra Natura e cultura, anche qui, non regge.IlgeneAgile

Ciò che chiamiamo pomposamente 'Natura umana' spesso non è altro che una delle possibilità genetiche che l’homo sapiens ha messo in atto. Basta cambiare qualche dato ambientale, e certi tratti latenti in una specie possono emergere e diventare centrali.

Ciò che avevamo preso per Natura universale era solo una fissazione provvisoria dovuta alla stabilità dell’ambiente in cui certe popolazioni vivono. Ciò che consideriamo la nostra Natura di solito non è altro che l’esserci ben sistemati in una data nicchia.

Il determinismo genetico, invece, riprende di fatto la concezione che un tempo veniva imposta dalla Chiesa: l’idea cioè che esistono attività e scelte umane secondo natura e altre contro natura.

Questa distinzione proviene dalla filosofia aristotelica, che la Chiesa cattolica ha fatto propria: alcuni processi vanno nel senso dell’ordine naturale, altri vanno contro quest’ordine. Per la Chiesa usare contraccettivi, abortire o usare cellule staminali sono atti contro natura, quindi da condannare. Come per Aristotele, la natura è considerata non semplicemente ciò che accade: è qualcosa da ripristinare o da raggiungere.

Oggi però per la scienza parlare di un fatto come contro Natura è un controsenso, perché qualsiasi fatto è naturale.

Ma nessuno, religione o scienza, può stabilire che cosa è 'naturalmente umano' e che cosa non lo è. Appellarsi a pretesi prodotti dell’evoluzione per sostenere certe opzioni politiche o etiche è quindi una truffa epistemologica. Certe teorie, dietro una facciata scientifica nascondono vecchie metafisiche.

Anche usando il metodo statistico non funziona, la tradizione, il 'si è sempre fatto così' per definire ciò che è naturale o non è, diventa molto pericoloso. Che per migliaia di anni ci sia stato lo schiavismo o il ruolo servente della donna (Aristotele), non 'naturalizza' tale stato.

Siamo contro la schiavitù non perché sarebbe contro la natura umana, ma perché contraddice la nostra etica universalista, sviluppatasi storicamente.

Allo stesso modo, alcuni credono che il DNA umano sia stato selezionato per rispondere a rapporti competitivi tra uomini, insomma, che l’homo sapiens è sopravvissuto perché più egoista e competitivo . Corollario politico: il socialismo è fallimentare perché il DNA umano non ci spinge a rapporti di solidarietà fraterna! In ambito cattolico si è anche sottolineato che il comunismo e la sua realizzazione hanno un limite antropologico.

Niente di più sbagliato, si tratta sempre di scelte sociali, dell'ambiente, delle relazioni sociali (di potere) che rendono la specie umana 'egoista', 'competitiva', 'invidiosa' o altro.

Se oggi molti di noi – non tutti! – pensano in modo esclusivo a se stessi, al proprio benessere, ai propri diritti, e parimenti siamo immersi in una determinata etica, morale, scienza o religione che arbitrariamente consideriamo universali, è perché siamo eredi storici prima del razionalismo greco, poi dell’universalismo cristiano e soprattutto di quello illuminismo attuale.

La politica senza universali10

Forse le tesi di Foucault contro Chomsky sono più condivisibili: certi criteri universalistici – come ad esempio il fatto che le donne debbano godere degli stessi diritti e opportunità degli uomini – sono costruzioni storiche. Da nessuna parte la Natura ha scritto che le donne debbano essere eguali agli uomini, ma neppure diseguali. Tuttavia quel che Foucault non dice è che la storia non è estranea alla biologia, perché il biologico è esso stesso storico: il fatto che gli esseri umani sperimentino le culture

più varie, e oggi tentino una cultura universalista, non va visto romanticamente come un progetto anti-naturale, come trionfo della libertà soggettiva contro i determinismi naturali, ma anzi come possibilità consentite dal nostro DNA. Scrive Gould:

La vecchia equazione della biologia con una restrizione che ci è imposta corrisponde a un lato della falsa dicotomia fra eredità e ambiente (dove l'altro lato, quello dell'ambiente o dell'educazione è quello malleabile); comunque essa si fonda su errori di pensiero vecchi quanto la cultura occidentale stessa. Ma chi critica il determinismo biologico non può sostenere la concezione egualmente erronea (e altrettanto crudele e restrittiva) che la cultura umana cancelli la biologia.

Non basta insomma dire, come si ripete spesso, che creare culture diverse e storia è una specificità della natura umana: in qualche modo la pluralità delle culture e il mutamento storico dispiegano la natura umana, la mettono in atto e allo stesso tempo la arricchiscono.

Non diversamente da quel che è stato fatto con la clitoride: l’orgasmo clitorideo non è culturale (dato che ne sono capaci anche molte scimmie) ma la sua messa in atto illustra la natura umana, la quale non è fissata una volta per tutte.

Quindi, chiamiamo cultura il modo in cui gli uomini – come dispersione di differenze – interpretano storicamente la loro supposta Natura. Per questa ragione è possibile distinguere Natura e cultura solo provvisoriamente: una norma culturale è sempre una scommessa sulla Natura umana – un'opzione tra varianti possibili.

Ogni cultura, sia dominante che subalterna, intellettuale o scientifica, come rafforzativo della sua idea di società, si vuole sempre rifare alla Natura, al 'naturale' come genesi della verità umana.

Non c'è nulla di male a cercare la propria natura nella Natura, a moltiplicare i propri esperimenti etici e politici, ma qui non si tratta di trovare una verità più vera, ma anzitutto non confondere l’esperimento con la verità.

Ad esempio, la nostra epoca è la prima, nella storia, a pensare che sia possibile una vera eguaglianza socio-politica tra classi e sessi: di solito tutte le culture a noi note riservano la maggior parte del potere ad una élite di uomini.

Quindi la politica rivoluzionaria per l'emancipazione sociale resta un’attività altamente rischiosa, non fondata su alcuna Natura garantita dalla storia passata o legge naturale: perché la Natura umana viene scoperta solo dalla praxis che sempre prosegue. La cultura è una ricerca illimitata della nostra Natura.homo sapiens

La “trans” Natura/cultura11

Le libertà umane contengono il mistero di una specie capace di grandezze sublimi e di bassezze che eccedono quelle di qualunque altro animale.

In nome del cervello di cui si dispone e dell’uso che ne fa, l’umanità può imboccare qualunque via che rientri nell’ambito della libertà (indefinita, ma non infinita) che esso le assegna. Questo, però, significa che può esplorare il mondo astratto dei simboli, ma anche incunearsi nel vicolo cieco dei pregiudizi, dell’etnocentrismo, del razzismo, della xenofobia; può ipotizzare un mondo utopistico fondato sull’uguaglianza, ma anche produrre, convalidare e razionalizzare iniquità di ogni genere.”

Superare la Dicotomia Natura-cultura (con tutte le sue implicazioni) quindi, non significa ricondurre i fenomeni culturali a quelli naturali o al contrario culturalizzare i fenomeni naturali. Il conflitto idealismo e materialismo NON è questo. Anzi, in questo modo si confermerebbe la Dicotomia, in quanto si continuerebbe a pensare nella logica illuminista e riduzionista. Quel che occorre invece è cercare di pensare in modo diverso.

Come ha scritto Telmo Pievani “saremo sempre più naturali attraverso la cultura. Viceversa, […] potremo finalmente affermare anche il reciproco, ovvero che siamo culturali attraverso la Natura.”12

Questo non significa che, in certi ambiti specifici, non dobbiamo usare più termini come cultura o Natura, ma il loro senso cambierà: in effetti, dovremo attribuire alla cultura qualità che prima riservavamo alla sola Natura, e dovremo attribuire alla Natura aspetti che prima consideravamo squisitamente culturali. Non per confondere le acque, ma perché penseremo di fatto secondo altre categorie.

Superare la Dicotomia quindi non significa un ritorno al relativismo culturalista romantico. Le culture vanno pensate non secondo connotazioni idealiste-spiritualiste, ma come strategie umane che riducono la complessità e libertà “naturali”: la cultura funziona non solo perché crea nell’uomo opportunità di immaginare vita nuove, ma anche perché le struttura e le limita le principali attraverso i feticci.

Emancipazione dal dominio dei pochi sui molti vuol dire usare il cognitivismo dei feticci per dare un senso sia alle novità sociale della mente (comunismo) e al contempo per tenere insieme una società dando equilibrio e solidità.

Antonio Savino 2015


1L’eudaimonìa è un’attività dell’anima in accordo con l’eccellenza, con l’aretè, quindi l’eudaimonìa consisterà nell’esercitare le funzioni razionali secondo l’eccellenza. Aristotele distingue due gruppi di aretài: 1) etiche, che concernono l’uso della ragione nella vita pratica, 2) dianoetiche, che concernono l’uso della ragione in sè. Le etiche consistono nel mezzo tra gli estremi comportamentali, le dianoetiche sono: la saggezza, ovvero l’aretè dianoetica che attua le aretài etiche; la techne, cioè l’arte di produrre oggetti; la scienza, cioè la capacità di svolgere le dimostrazioni in modo corretto; l’intelletto, cioè la capacità di cogliere i principi primi; e la sapienza, che risulta dalla connessione di scienza e intelletto. L’attività propria del sapiente è la theoria: la sua vita sarà, pertanto, la vita teoretica (in questo per Aristotele consiste l’eudaimonìa umana). Nella separazione di saggezza e sapienza appare sciolto il nesso socratico e platonico tra conoscenza dell’universale e sapere pratico. (prof. Jacopo Nacci)

2"dominare" (Genesi 1, 28) e "custodire" (Genesi 2, 15)

3Sulla relazione tra cristianesimo, filosofia e scrittura ne abbiamo già parlato.

4A parte i non uso “legali”, quelli esistenziali di lascito ereditario ecc.

5Qui sotto si riprendono le tesi e capitoli dell'interessante articolo-conferenza di Sergio Benvenuto pubblicato su: «Natura/Cultura : una dicotomia da superare », Lettera internazionale, 82, 4°trimestre 2004. I brani sono esposti in modo riassuntivo, e non sono virgolettati.

6Hegel afferma che lo spirito oggettivo è la realizzazione della libertà, e la libertà è l'unità del volere razionale con il volere del singolo; non è dunque l'arbitrio, ma è la volontà che si adegua a ciò che prescrive la ragione, ossia alla legge. Hegel, identifica libertà e legge, legge del diritto astratto.

Il diritto realizza la prima forma di libertà dell'individuo. Nel diritto astratto l'individuo diviene infatti una persona giuridica e ciò, per Hegel, significa essenzialmente soggetto capace di proprietà. Il diritto tutela la libertà esterna della persona garantendola, appunto, come proprietario e tutti i rapporti fra i soggetti di una comunità sono appunto rapporti regolati dalla proprietà. Al lato esterno, superficiale, astratto e formale della libertà si contrappone quello della legge interiore.

7Sempre dall'articolo di Sergio Benvenuto.

8C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 1984.

9Non si vuole insinuare che bisogna mettere gli animali in gabbia, ma solo che non ci si può appellare alla 'Natura' o a criteri 'naturalistici'.

10Sempre dall'articolo di Sergio Benvenuto.

11 Sempre dall'articolo di Sergio Benvenuto.

12 T. Pievani, “Quella volta che siamo diventati umani”, Lettera Int., 80, 2004, p. 47.